freaks out

FREAKS OUT

FREAKS OUT

Regia di Gabriele Mainetti. Un film Da vedere 2021 con Claudio Santamaria, Aurora Giovinazzo, Pietro Castellitto, Giancarlo Martini.

 

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C’è una guerra sporca che brucia il mondo e i diversi. In quella guerra sporca c’è un circo e dentro al circo quattro freaks che strappano sorrisi all’orrore. Matilde è la ragazza ‘elettrica’, Fulvio l’uomo lupo, Mario il nano calamita, Cencio il ragazzo degli insetti. A guidarli è Israel, artista ebreo e ‘terra promessa’, che ha inventato per loro un destino migliore. Assediati dai nazisti, che hanno occupato Roma e soffocato ogni anelito di libertà, decidono di imbarcarsi per l’America ma inciampano nell’ambizione divorante di Franz, pianista tedesco e direttore artistico del Zirkus Berlin, con troppe dita e poco cuore. Strafatto di etere, Franz vede il futuro e vuole cambiarlo: la Germania non perderà la guerra. A confermarlo sono i suoi deliri, a garantirlo i superpoteri di Matilde, Fulvio, Mario e Cencio. A Franz non resta che scovarli.

Davanti a Freaks Out, e dopo Lo chiamavano Jeeg Robot, non abbiamo più dubbi, Gabriele Mainetti è il mago di Oz del cinema italiano.

Un uragano che ci solleva dalla monotonia della produzione nazionale per precipitarci nella terra dell’avventura, dove sopravvivono creature fantastiche in cerca del loro cuore o del loro coraggio per sconfiggere la paura e una strega, sempre crudele e ciarlatana. Non si allontana troppo dalle rive del Tevere, Mainetti che lascia il cuore del ciclone per sbarcare nel regno della narrazione fantastica nutrita di Storia. Una ‘storia’ nota che il suo film ‘mette in pericolo’ attraverso un nazista più nazista degli altri, decisamente antisemita e ostinato a vincere la guerra, perché ha già visto il futuro e la morte del Führer.

Mainetti confonde i fatti reali (l’occupazione di Roma) con gli avvenimenti immaginari (l’arrivo del Circo Mezzapiotta). Cortocircuitando l’esperienza romanzesca e l’illusione di realtà storica, immagina un pianista pazzo che usurpa a Chaplin l’energia burlesca per ridere e irridere l’intolleranza e la tirannia. Da qualche parte tra il gaio dittatore di Mel Brooks e il grande dittatore di Charlie Chaplin, Franz Rogowski torce e rivolta il corpo per entrare meglio nella pelle dell’altro, soprattutto di quello che si detesta.

Giocoliere con mappamondo e bastone (una pistola a canna lunga), l’attore tedesco sa bene che i dittatori sono registi e segretamente coreografi. Sempre comicamente in controtempo, infila in Freaks Out danze improvvisate, balzi e sbalzi di umore perché Franz combatte una battaglia contro il mondo non troppo lontana da quella dei suoi antagonisti, mostri come lui fuori dal circo. Ma se il primo schiverà la realtà senza fine, nascondendo dietro la divisa la propria anomalia, i nostri ci affonderanno temerariamente. Persino Cencio, il più pavido tra loro finirà per volare alto “senza aria e senza rete”.

Alla caricatura distruttiva del nazismo trionfante, Mainetti oppone ancora una volta un eroe, quattro eroi popolari, poveri diavoli e nobili attori che maneggiano il grottesco con brio. Riconfermato Claudio Santamaria, riconoscibile dietro al pelo mannaro, assolda Pietro Castellitto, silhouette albina e in contropiede costante, Giancarlo Martini, clown incipriato e ‘dotato’ di magnetismo, e Aurora Giovinazzo, orfana ‘luminosa’ che dirige i codici del film storico verso l’intrattenimento mutante.

UNA FAMIGLIA VINCENTE - KING RICHARD Regia di Reinaldo Marcus Green. Un film con Will Smith, Saniyya Sidney, Demi Singleton, Aunjanue Ellis, Tony Goldwyn.

UNA FAMIGLIA VINCENTE – KING RICHARD

UNA FAMIGLIA VINCENTE – KING RICHARD
Regia di Reinaldo Marcus Green. Un film con Will Smith, Saniyya Sidney, Demi Singleton, Aunjanue Ellis, Tony Goldwyn.

 

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All’inizio degli anni ’90, Richard Williams è un ex atleta che vive a Compton, in California, con la moglie Brandy, le tre figliastre e le sue due figlie naturali: Venus e Serena. Convinto che le sue ragazze diventeranno future campionesse del tennis, le allena tutti i giorni nei campi liberi del loro quartiere malfamato e visita instancabilmente i principali tennis club dello Stato per convincere le alte sfere del tennis a prendere le figlie sotto la loro ala. Insistente e autoritario, Richard guiderà e seguirà passo passo le carriere di Venus e Serena (quest’ultima più giovane di due anni dalla sorella), arrivando a realizzare tutti i suoi sogni, anche a costo di perdere la stima della moglie.

A carriera quasi conclusa, Venus e Serena Williams, le due tenniste più vincenti e probabilmente più forti di sempre, avvallano in qualità di produttrici esecutive una biografia che celebra il loro padre, padrone ed allenatore e ne esalta la figura di sognatore testardo.

Il problema con lo sport al cinema – soprattutto quando e se americano – è il solito: la sua assenza. Anche quando è il fulcro del racconto, il motivo per cui eroi ed eroine si dannano l’anima per raggiungere i loro scopi. In King Richard il centro del discorso è rappresentato più precisamente dal protagonista, il “re” Richard Williams interpretato da Will Smith, idolatrato dalle sue suddite (Venus e Serena) e talvolta inquadrato sotto una luce sinistra giusto per rendere più scolpita e credibile la figura statuaria.

Fa però un certo effetto che nelle due ore e venti di film diretto da Reinaldo Marcus Green e scritto da Zach Baylin, in cui il tennis dei primi anni ’90 viene passato in rassegna, con attori e attrici che interpretano Jennifer Capriati, Arantxa Sánchez Vicario, John McEnroe, Pit Sampras e allenatori come Rick Macci e Paul Cohen, non si senta mai parlare di gioco, di stile, di tattiche e colpi, ma semplicemente, come da prassi per l’individualismo americano, di convinzione, volontà, umiltà e voglia di vincere. Manco a dirlo, di tennis giocato se ne vede pochissimo, e di quel poco tutto è ricondotto al singolo gesto, al colpo che delle straordinarie doti di Venus e Serena Williams non dice nulla.

Lo sport – qualsiasi sport – si dimostra quindi impossibile da ricostruire al cinema: perché la sua visione non è cinematografica; perché lo sport può e deve fare a meno del montaggio; perché, ancora, una partita si basa sull’attimo irripetibile e dunque è refrattaria per definizione al racconto e alla fine.

Per tutte queste ragioni – e in definitiva perché elude il centro del proprio discorso, anche ammettendo che non è un film su tennis ma un film su un uomo – King Richard, al di là della veridicità storica di molti suoi passaggi, è un’operazione mistificatoria. Il problema, ancora, è che un film di finzione può infischiarsene dell’accuratezza, ma ha l’obbligo di rendere credibile la costruzione dei suoi personaggi e del suo mondo: e in questo, onestamente, King Richard fallisce in pieno, a meno di non considerare la parola “re” come una lente distorta attraverso cui giudicarlo.

IL CAPO PERFETTO Regia di Fernando León de Aranoa. Un film Da vedere 2021 con Javier Bardem, Manolo Solo, Almudena Amor, Óscar de la Fuente, Sonia Almarcha.

IL CAPO PERFETTO

IL CAPO PERFETTO

Regia di Fernando León de Aranoa. Un film Da vedere 2021 con Javier Bardem, Manolo Solo, Almudena Amor, Óscar de la Fuente, Sonia Almarcha.

 

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In attesa della visita di una commissione che valuterà il vincitore di un importante concorso pubblico, il signor Blanco, padrone di una ditta di bilance, cerca di tenere insieme i pezzi della sua vita privata e lavorativa: interviene personalmente per risolvere i problemi del capo della produzione; mantiene buoni rapporti con la moglie nonostante la tradisca con la nuova stagista; con il capo del personale e la guardia giurata dello stabilimento gestisce la protesta di un ex dipendente licenziato appostatosi ai cancelli; con tagli, cambi di mansioni e decisioni insindacabili fa affari con piglio gentile ma deciso. Blanco è il capo perfetto: un padre buono che vedi i propri dipendenti come dei figli ed è disposto a tutto pur di salvare l’azienda…

Quasi vent’anni dopo I lunedì al sole, Javier Bardem e Fernando León de Aranoa tornano a parlare del mondo del lavoro: questa volta però sono dall’altra parte della barricata, dalla parte del padrone, di colui licenzia e non di chi può essere licenziato.

Fa un certo effetto, dopo anni di film figli della crisi economica e dedicati a lavoratori licenziati o a fabbriche dismesse (La legge del mercato, In guerra, A fabrica de nada, On va tout péter), vedere un film come Il capo perfetto, in cui l’azienda al centro del racconto non solo è viva e vegeta, ma è tra le candidate a un premio che permetterebbe ulteriore prestigio e soprattutto ulteriori finanziamenti pubblici («altrimenti quei soldi vanno al cinema», dice Blanco…).

Il punto centrale del discorso di de Aranoa, che è anche sceneggiatore, non è tanto il lavoro quanto la responsabilità: la gestione della vita altrui da parte di un uomo che si identifica totalmente con la propria azienda. La crisi è un’eventualità ma è lontana (all’inizio si vede un licenziamento durante le celebrazioni dello stabilmento, ma per Blanco è un semplice esubero, una cosa legale…); la produzione serrata e la qualità dei prodotti immessi sul mercato sono un obbligo; la serenità aziendale è una necessità.

Giusto perché le cose siano chiare, la Blanco Básculas, la società di gestione familiare del protagonista, produce bilance (básculas in spagnolo) e il giusto equilibrio è proprio ciò che ogni imprenditore deve trovare: equilibrio fra padrone e dipendenti, fra tempo e lavoro, vita privata e azienda, benessere e grattacapi, interessi personali e collettivi, bene personale e bene di tutti. Questo è il compito del capo perfetto, insomma. O forse no.

Forse, come si comprende nel corso di una trama che prevedibilmente spinge il protagonista a fare scelte estreme (ma siccome non siamo in un film di Ken Loach si resta sul piano della commedia acida), l’equità necessaria è di altro tipo: è fra legalità e illegalità, bontà e cattiveria, magnanimità e spietatezza, naturalezza e calcolo, faccia gentile e animo selvaggio, innocenza e colpa (anche penale).